Come un pesce fuor d’acqua. Diario di una maestra di scuola dell’infanzia

Nel ripensare un agire  organizzato per ricostruire la relazione a distanza, l’insegnante costruisce un’alleanza con le famiglie raccontando come organizzare gli spazi per favorire l’autonomia, come promuovere esperienze scientifiche attraverso l’osservazione e la sperimentazione, senza dare risposte preconfezionate trasformando  gli eventi quotidiani in occasioni di apprendimento.

Come un pesce fuor d’acqua

Diario di una maestra di scuola dell’infanzia 

Antonietta Bonanno,
Scuola dell’infanzia
Sezione 3-5
Milano 

Lo scrittore David Foster Wallace raccontò questa storiella durante il discorso che tenne per la cerimonia delle lauree in un college americano nel 2005:

Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”

Il 24 febbraio le scuole hanno chiuso i battenti. I primi giorni siamo rimasti increduli, ci siamo presi tutti qualche giorno di riposo.

Poi abbiamo capito ed è cominciata la corsa alla didattica a distanza. Anche noi insegnanti di scuola dell’infanzia abbiamo accelerato, ma si sa, ognuno ha il suo passo: alcuni volano, altri strisciano, qualcuno si arrampica, qualcun altro corre. Noi eravamo i pesci nell’acqua.

La scuola è la nostra acqua. Il nostro lavoro educativo lo facciamo lì, è altamente situato fra quelle mura, stanze, sedie, oggetti. Noi educhiamo in un ambiente che abbiamo costruito con cura e che educa con noi, grazie alle sue regole d’uso, al modo in cui bambini e adulti interagiscono all’interno di esso come comunità.

Chiusa la scuola prosciugato il mare. Fuori dall’acqua ci siamo resi conto di quanto fosse difficile respirare. Quelle di noi che si districavano meglio con i mezzi tecnologici si sono illuse di potercela fare anche senza l’ambiente, il nostro terzo educatore. Io sono stata una di quelle.

Senza ambiente e senza comunità ho cominciato a progettare complicati video pieni di effetti speciali che ricreavano l’atmosfera della scuola. Una immane fatica, che i bambini consumavano in pochi minuti di visione distratta dietro allo schermo di un telefono. Perché no, non eravamo a scuola.

Poi ci siamo buttati sui tutorial: prendiamo questo, costruiamo quell’altro, casette degli elfi, robot, sottomarini, camion dei pompieri. La fiera della plastica, riciclata, ma sempre plastica. Ma per i tutorial servono materiali e adulti che li reperiscano, li taglino, aiutino ad assemblarli. E gli adulti devono lavorare da casa in appartamenti minuscoli.

Infine sono arrivate le videochiamate di gruppo. Tutti insieme appassionatamente, fra urla, ritrosie, confusione, intoppi alla linea. Una, due, tre volte. Per raccontarsi esperienze non fatte e darsi appuntamenti a data da destinarsi.

Tantissimo lavoro, efficacia scarsa. E mentre annaspo nella frustrazione realizzo quanto insensato sia per un pesce pensare di poter nuotare fuori dall’acqua.

Il mio errore è stato avere in mente solo il rapporto insegnante – bambino; ho avuto l’arroganza di voler parlare direttamente ai bambini, riducendo al minimo la mediazione delle famiglie, affidandomi alla neutralità della tecnologia. Ma da educatrice non posso pensare di educare a distanza, le dinamiche virtuose della scuola non si possono ricreare virtualmente. Né posso chiedere a bambini in età prescolare di interagire attraverso uno schermo mantenendo attenzione e motivazione. Non posso imporre alle famiglie di fare il mio lavoro, assegnando compiti e pretendendo una restituzione.

Ma posso mostrare ai pesci l’esistenza dell’acqua perché imparino a nuotare meglio.

Comincio col dirmelo chiaramente: gli insegnanti non arrivano ai bambini senza la mediazione delle famiglie, lo schermo non è un mediatore neutro e può facilmente diventare un ostacolo. Devo acquisire questa consapevolezza e ridimensionare la mia arroganza di educatrice.

In questo momento così difficile devo, dobbiamo tutti, reimparare a fidarci l’uno dell’altro e a stringere alleanze educative più forti di prima rendendo manifesti intenti, obiettivi, paure.

Da insegnante posso raccontare alle famiglie come educhiamo attraverso la pedagogia del quotidiano, dando valore a ciò che succede qui e ora, facendo attenzione alla realtà in modo da “favorire l’autonomia e la curiosità del bambino, sollecitare il divertimento e la cooperazione, rifiutare ogni forma di conoscenza stereotipata, certa e statica per il fatto che si dà ascolto ai bisogni infantili di manipolazione, di sperimentazione e alla voglia, così evidente nell’infanzia, di fermarsi a guardare “che cosa succede se…”.

Posso provare a uscire dalla logica del prodotto, che sia il nostro video di insegnanti o la scheda che chiediamo a bambini di realizzare.

Posso cominciare a parlare alle famiglie di come organizzare gli spazi per favorire l’autonomia, di come promuovere esperienze scientifiche attraverso l’osservazione e la sperimentazione, senza dare risposte preconfezionate, di come trasformare gli eventi quotidiani in occasioni di apprendimento.

Posso promuovere negli adulti la riflessione e l’interpretazione delle dinamiche casalinghe evidenziandone il valore pedagogico.

Posso ascoltare le famiglie e provare a far loro da specchio, mettendo ordine nelle idee e restituendo spunti di riflessione invece che ricette.

Posso contribuire a che ogni pesce nuoti consapevolmente capendo finalmente che diavolo è l’acqua.

  • Foster, W. D. (2009). Questa è l’acqua.
  • Sarsini, D. (2012). Slow school. Pedagogia del quotidiano. Studi sulla Formazione, 15(1), 256.

1 commento su “Come un pesce fuor d’acqua. Diario di una maestra di scuola dell’infanzia”

  1. Francesca Somaschini

    Grazie Antonietta,
    credo che lo spunto di fornire strumenti ai genitori per sostenere i bambini nel quotidiano sia davvero prezioso. La scuola dell’infanzia, insieme al nido, è l’unico habitat in cui i genitori entrano fisicamente e nonostante lo frequentino spesso non comprendono cosa sia sotteso alle scelte di strutturazione degli spazi o alle proposte formulate. Credo che fornire loro strumenti di pedagogia del quotidiano possa essere davvero una via da percorrere che possa in parte sostituire gli scambi relazionali quotidiani “sulla porta” della sezione e svelare il senso del nostro fare scuola.
    ringrazio molto dei preziosi riferimenti bibliografici. Francesca

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