La scuola reale, quella concreta con le aule, i cortili, i corridoi; quella in carne ed ossa, con i bambini che si muovono e ci guardano, si alzano, litigano e discutono, giocano e inventano giochi è sospesa. Perché sono state sospese le attività, ma anche perché è rimasta sospesa a mezz’aria, senza che potessimo salutare i bambini, senza che ci potessimo preparare a questo uragano che ci ha investito, senza che avessimo tutti gli strumenti pronti per poter affrontare il grande vuoto che si è creato. Perché a noi insegnanti piace programmare, non farci trovare impreparati quando dobbiamo proporre qualcosa ai bambini. Invece questa volta, il disorientamento e lo spiazzamento – credo – sono i sentimenti più diffusi che abbiamo provato. Niente aule, niente banchi, niente lavagne e materiali pronti e, soprattutto niente bambini.
Ma anche i nostri bambini sono stati presi alla sprovvista: dopo un primo momento, forse, di gioia per una scuola che li lasciava a casa, potendosi svegliare più tardi e senza compiti, si sono resi conto che non avrebbero più visto per un po’ i loro compagni: niente litigi, niente scambi di figurine, niente racconti e giochi. Non avrebbero più visto, però, nemmeno le loro maestre che costituiscono la figura adulta più importante di riferimento dopo i genitori. Niente più saluti al mattino, niente più sguardi, niente cose nuove da fare e nemmeno niente più compiti noiosi che davano il senso della quotidianità insieme alle mille attività proposte a scuola. Niente più conversazioni fra bambini, fra maestre/i e bambini e fra adulti.
L’antropologo Marco Aime afferma che “la conversazione faccia a faccia ci rende umani, perché siamo presenti al nostro interlocutore (…). La conversazione richiede tempi e spazi (…) per rafforzare quella capacità di introspezione, utile a comprendere noi stessi, gli altri e il mondo fuori” (M. Aime, Comunità, IL Mulino, Bologna, 2019, pp. 72). E allora, che fare se quelle conversazioni di persona, quei contatti, quegli sguardi, questi gesti non si possono più agire in presenza? Come ricostruire quel filo di relazioni, affetti, comunicazioni quotidiane che ci tengono legati gli uni agli altri? Come ritrovare la sicurezza dei gesti quotidiani che costituiscono i rituali delle nostre giornate a scuola e su cui si fonda anche il senso di comunità coi nostri bambini? Come far sì che i bambini si sentano ancora una comunità di cui fanno parte coi loro compagni e i loro insegnanti e educatori? Come ricreare quella comunità che oggi, con le necessarie limitazioni a cui tutti siamo soggetti, diventa uno spazio imprescindibile di confronto ed esercizio di diritti dei bambini?”
Sempre secondo Aime, la “comunità è quel gruppo di persone che condivide uno spazio e delle consuetudini” (ibidem, p. 12), e ora, in un solo colpo, abbiamo perso sia lo spazio comune sia le consuetudini. Quando ci siamo trovati a dover ripensare la scuola a distanza, sicuramente il nostro pensiero è andato alle attività da proporre o ai compiti da assegnare, ma affinché queste attività e questi compiti possano andare a buon fine e, soprattutto, possano avere un senso per i bambini nella condizione in cui sono adesso, è indispensabile innanzitutto ritrovare un nuovo modo pensarci come comunità che – come direbbe Weber – poggia su una comune appartenenza sentita da ciascuno degli individui che ne fanno parte (M. Weber, Economia e società, Milano, Comunità, 1961, vol. I, p.23, ediz orig, 1922).
Anche a distanza, dovremo trovare il modo di ricucire il filo che lega noi e i bambini con quello che avevamo fatto fino al momento della sospensione, con i tanti piccoli gesti quotidiani che segnavano le nostre e le loro giornate insieme, ritrovare i legami che ci univano a ogni singolo bambino e anche al gruppo nel suo insieme. Ritrovare nuovi rituali che – sempre secondo Aime – sono azioni che “spingono i membri della comunità a concentrarsi collettivamente e nello stesso istante su problemi o sentimenti ai quali attribuiscono una spiccata importanza”, su punti di attenzione che possano rivestire un senso per tutti e per ciascuno.
Perché gli esseri umani hanno bisogno di trasformare in eventi sensorialmente percettibili idee e principi per poterli pensare come reali, hanno bisogno di rituali che rendano visibile la comunità o, meglio, l’idea che la comunità ha di sé stessa. Molti dei racconti e delle proposte che numerosi insegnanti hanno voluto condividere e condivideranno in questo nuovo spazio, al di là del contenuto o dell’attività in sé, costituiscono proprio un tentativo di ricostruire quel filo di legami e quel senso di comunità imprescindibile per ogni gruppo che intende proposti come luogo di apprendimento. Una comunità in cui ogni bambino, oltre a imparare nuovi contenuti, a incuriosirsi, esplorare, concettualizzare, possa imparare ad essere un “essere sociale” per poter esercitare i propri diritti in uno spazio collettivo.